Come dite? No no, tranquilli, il prof. Alfonso non è improvvisamente diventato un 'puffo gigantesco' :p
Sono io che venerdì scorso, a causa di impegni personali e improrogabili, ho dovuto inviare a lezione il mio avatar per raccogliere le informazioni necessarie per questo post (questa è un'immagine di lui che torna dalla 'missione'). Scherzi a parte, ovviamente ringrazio tutti coloro dai quali assorbirò le nozioni di questa quinta lezione (Anna, Fede, Andrea, Gaspare, ecc.).
Sono io che venerdì scorso, a causa di impegni personali e improrogabili, ho dovuto inviare a lezione il mio avatar per raccogliere le informazioni necessarie per questo post (questa è un'immagine di lui che torna dalla 'missione'). Scherzi a parte, ovviamente ringrazio tutti coloro dai quali assorbirò le nozioni di questa quinta lezione (Anna, Fede, Andrea, Gaspare, ecc.).
A quanto leggo dai blog dei miei 'più che colleghi amici', arrivato fresco fresco dalla partecipazione al Salone del Libro di Torino, il prof. ha proseguito nel percorso tracciato in queste settimane, attraverso un confronto fra supporti fisici vs digitali e circa le importanti questioni che questi ultimi hanno posto (per le quali si stanno ancora cercando le migliori soluzioni): 1) coniugare la gratuità tanto cara agli utenti della Rete con la necessità di un ritorno economico per gli investimenti fatti dalle aziende; 2) problematiche in tema di diritti d'autore e della privacy.
La tecnologia è riuscita a 'contagiare' anche il sistema editoriale. Uno degli esempi più evidenti di come siano cambiati gli assetti dell'editoria classica è senza dubbio l'e-book (contrazione dell'espressione inglese 'electronic book'), versione digitale di una qualsiasi pubblicazione, che cerca nel contempo di abbinare le caratteristiche migliori del classico libro cartaceo (in modo da rendere la lettura il più possibile simile a quella tradizionale, permettendo di effettuare tutte le normali azioni come lo scorrere delle pagine o l'inserimento di un segnalibro) ai vantaggi offerti dalla sua natura digitale (principalmente nelle possibilità di essere un ipertesto e quindi di inglobare elementi multimediali, e nella possibilità di utilizzare dizionari o vocabolari contestuali).
A proposito dell'editoria libraria, e in generale di tutto ciò che è informazione sulla Rete, oggi non si parla più solo della questione tecnologica, ma anche della problematica dei pagamenti. Ciò che viene messo in discussione è la stessa definizione di gratuità della rete, uno dei principi cardine di Internet fin dalla sua liberalizzazione, garanzia di facilità d'accesso e fruibilità della comunicazione (su questo argomento mi sento di consigliarvi la lettura di un testo che è stato per me illuminante: Gratis, di Chris Anderson, 2009, ed. Rizzoli).
L'incremento dell'alfabetizzazione informatica e la conseguente diffusione dei supporti digitali (smartphone, i-pad, tablets, ecc.) ha ribaltato l'equilibrio tra le forze in gioco nella gestione dell'informazione giornalistica e culturale. Le risorse economiche, dunque, si concentrano nelle mani di chi produce 'strumenti', a discapito di chi produce 'contenuti' (un paradosso che mi ricorda molto questo: "anni fa un'azienda pagava poco un uomo-sandwich perché pubblicizzasse il suo marchio, oggi siamo noi a pagare lautamente le aziende per indossare i loro capi firmati).
Il depauperamento del mondo dell'editoria ha inoltre subito un'accelerazione decisiva (e forse letale) con la crisi economica di questi ultimi anni. Sono crollati i ricavi pubblicitari e diffusionali e sono viceversa aumentati i debiti e i passivi nei bilanci. Gli editori hanno tentato di correre ai ripari aumentando i prezzi dei libri e dei giornali, ma la soluzione si è rivelata un insufficiente palliativo, imponendo loro di buttarsi nel nuovo business dell'editoria online.
Ecco allora nascere l'idea del paywall e delle notizie a pagamento. Certo, l'opinione prevalente al momento è ancora orientata a favore della gratuità delle news. "Se tutto è gratuito in rete, perché l'informazione non dovrebbe esserlo?", dicono i teorici del web e i guru dell'editoria, sostenendo che sia necessario, utile e giusto non far pagare i contenuti online. Tuttavia, è al contempo vero che, da un punto di vista economico, questa concezione appaia come una filosofia "concettualmente giusta" ma "evidentemente insostenibile".
"Da un lato l'informazione vuole essere costosa, perché ha molto valore: l'informazione giusta nel posto giusto ci cambia la vita. D'altro canto, l'informazione vuole essere gratuita, perché produrla sta diventando sempre più economico. Quindi queste due tendenze sono in rivalità". Questa frase di Steward Brand è probabilmente la più importante e fraintesa dell'economia di Internet. Chris Anderson l'ha a mio avviso molto ben esplicitata affermando che: "L'informazione abbondante vuol essere gratuita. L'informazione scarsa vuole essere costosa". Il contenuto culturale non può essere gratuito. Possono esserlo i titoli, i flash, le breaking news, ma non il commento dell'esperto, né l'intervista, l'inchiesta o l'approfondimento. L'idea che sta alla base del paywall consiste nel favorire il riconoscimento del mestiere dei giornalisti, delle loro capacità professionali e, dunque, dell'esclusività della riproduzione dei contenuti.
Strettamente legato al tema della gratuità è il problema del diritto d'autore. Copiare una notizia e pubblicarla senza darne riconoscimento all'autore significa commettere una violazione del copyright. Poiché la rete non ha confini, a livello giuridico è molto difficile individuare e accusare qualcuno per questo tipo di violazione. A ciò va aggiunto il fatto che non esiste una legge completa, attuale e affidabile in questo ambito.
Nei paesi UE ci sono stati dei tentativi di legiferare in materia, come ad esempio in Francia, dove il presidente Sarkozy si è fatto promotore di una legge che puniva chi scaricava illegalmente files, bocciata però dalla Corte Costituzionale. In Italia invece (noi ci facciamo sempre riconoscere!) il sito della Camera dei deputati riporta allegramente nella sezione della rassegna stampa tutte le prime pagine dei principali quotidiani, proprio mentre gli stessi parlamentari proponevano un progetto di legge che voleva far registrare i blog come testate giornalistiche.
Si può sostenere che la latitanza delle leggi è legata ad una difficoltà di definizione del 'bene di consumo online'. Cosa si può mettere in rete? Cosa no? E' giusta la filosofia del copyleft, basata sulla gratuità di tutti i documenti e dunque opposta al copyright? Una legislazione più precisa consentirebbe un maggiore controllo sullo stesso contenuto del web, sulla diffusione di contenuti discriminatori o criminali e sulle diffamazioni e violazioni del diritto alla privacy (variabile da paese a paese, anche se esiste un protocollo comune gestito dal garante europeo).
Si chiude così l'argomento del giornalismo online, ricordando l'importanza di andare oltre alla home page e di scavare più in profondità "alla ricerca dell'informazione perduta". Non si è trattato il tema delle IPTV, delle tv di broadcasting e di produzione di video all'interno del web (si rimanda per questo ai corsi di Triani-Gavazzoli). La prossima volta si parlerà del web e di tutto ciò che giornalismo online non è, ovvero di COMUNICAZIONE. A presto!!!
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